Archive | October, 2012

Neil Young – Psychedelic Pills

30 Oct

Non ho capito perché Neil abbia deciso di mettere una forma di parmiggiano reggiano in copertina. Sarà una produzione autoctona fatta da qualche sioux innamorato dei formaggi italiani *.

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Alcool & Ignoranza: Pregnancy Scare (CAN)

29 Oct

Il Canada non è solo terra fertile per il post-rock, e mentre la Constellation festeggia in giro per il mondo la sua quasi raggiunta maturità (anagrafica, non musicale), la stampa celebra i Metz, il cui merito è quello di aver riscoperto le sonorità più abrasive dei tardi anni Ottanta, la Deranged Records sforza il primo 7″ di un band di Ottawa, la cui formula è sintetizzabile nell’endiadi: alcool e ignoranza.

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From the Vault ep.4: Brainpool – Junk: A Rock Opera (2004)

27 Oct

di Nadir

Come possa uno dei dischi più monumentali e totali degli anni 2000 restare pressocché sconosciuto è un mistero. Sarà forse questione di casualità, o di agganci giusti, non lo so. Eppure gli svedesi Brainpool partivano da una discreta carriera indie pop, invero non troppo strombazzata e mai decollata a livello internazionale.

Comunque si, oggi parliamo di Junk, il canto del cigno dei Brainpool, band che ha deciso di chiudere la carriera in maniera sorprendente, non solo facendo qualcosa di molto diverso da quel che era stato nel complesso il loro percorso musicale, ma facendolo anche molto ma molto bene.

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…Miserere nobis: The Secret – Agnus Dei (2012)

25 Oct

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Esoterismo Finnico: Circle of Ouroborus

24 Oct

Circle+of+Ouroborus+Rauta+aka+Atvar++Antti+Klemi

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CID RIM

24 Oct

di cox

Clemens Bächer, beatmaker viennese and jazz drummer, autore di un lp fuori per la LUCKY ME  sotto lo pseudonimo di CID RIM.

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Less is more

23 Oct

Chiuse in uno strano mutismo da quasi tre anni, le Talk Normal finalmente ci regalano questo Sunshine (Joyful Noise), che di luminoso ha poco.

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From the Vault ep.3: Justen o’Brien & Jake – Time Will Tell (1978)

23 Oct

di Nadir

Stavolta andiamo nel North Dakota, 1978. Mentre infuria il punk viene infatti pubblicato come stampa privata questo gioiellino – unico parto del suo autore – che si pone in magico equilibrio tra cantautorato, folk, progressive, psichedelia e un tocco di lounge jazzata.

Un aspetto importante che caratterizza il disco è la produzione: non aspettatevi la produzione tipica di un disco mainstream del 1978. Qui tutto suona low cost e abbastanza essenziale, anche se siamo lontani dagli eccessi di sporcizia sonora tipici di altre autoproduzioni psichedeliche americane degli stessi anni (penso a Michael Angelo o a Rick Saucedo, di cui parleremo in futuro). Quindi low cost ma non low fi.
Musicalmente ci troviamo davanti a un mood abbastanza pop/canterburiano, che a volte assume toni più “cavalcanti”, tanto da dar l’impressione di ascoltare una versione cantautoriale dei Camel. Comunque, tutte sensazioni difficili da descrivere e che, come sempre, è meglio approcciare in maniera diretta: con l’ascolto.

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Leberkäse mit Kartoffeln: proletariato e hardcore.

22 Oct

Scegliere un nome come Ecole Du Ciel è un tentativo di ingannare gli ascoltatori. Sotto un nome che è sospeso tra il nerdismo di marca nipponica (generazioni otaku che si gingillano con robottoni e cosplayer svestite) e l’evanescente soavità di formazioni ambientali che colmano la durata di un supporto ottico con fumose divagazioni ombelicali, si nasconde un power-trio acido e scontroso.

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Anomalie rifrattive: James Blake, Dirty Beaches, Ghostpoet.

22 Oct

Pur comprendendo a volte che l’assillo dell’attualità è di fondamentale importanza, la distanza anche minima da presente è altrettanto fondamentale. Ormai, ci si barcamena in un continuum frastagliato in cui il museale, confina con l’archivio e la riproduzione storica. Si parla di possessione (il termine esatto mutuato dal Derrida di Spettri di Marx è hauntology), ma ciò non fa che sancire un ruolo sussidiario del presente rispetto al passato. O meglio, il futuro non è che una piega del passato.

In questa malattia del passato, il futuro e la capacità immaginativa di pensare un possibile futuro viene erosa. Vi è quasi un’anomalia rifrattiva che mostra il futuro come una copia upgradata del passato. Un corollario o una nota a pié di pagina che – il più delle volte – supera in ampiezza il testo che glossa.

Dirty Beaches, al secolo Alex Zhang Hungtai, di origini taiwanesi ma trapiantato nel Quebec, è un corpo posseduto da diverse anime. Non si può non credere guardandolo che in realtà abbia più anni di quelli che dice di avere e soprattutto il dono dell’eterna giovinezza. Quello che mi ha colpito di DB, prima di ogni ascolta è l’immagine del suo primo full length Badlands. Ha creato un trittico perfetto con altri due dischi: il tanto decantato omonimo di James Blake e Peanut Butter Blues and Melancholy Jam di Ghospoet.

 

 

DB si pone in un contesto altro rispetto alle divagazioni garage/dubstep di Blake e del poeta fantasma; vi è comunque un elemento che accomuna i tre: è il richiamo ad un’ identità soul, ormai prostrata e dal netto sapore etilico. DB ha nel passato i Suicide come nemesi. Ma quello dei Suicide era un blues robotico per alienati e schizofrenici: era l’anima ormai persa tra i liquami di una città retro-futurista sospesa tra riff atavici e riverberi impazziti: un ibrido post-umano da tragedia imminente. Il tono violento e pessimista dei Suicide assume tutt’altro aspetto nella declinazione di DB: è la nostalgia ( ironica e consumata ) che provoca un’anomalia rifrattiva nei confronti del passato: è una malinconia terrificante: onirica e schiacciante. Ha lo stesso olezzo di un morto vivente.

 

 

Blake è più controllato: romantico in una certa misura. Il tono è quello del rallentamento, come se la musica scorresse frame by frame. Delle istantanee che vengono mostrate con forse troppa cura. Il che da un certo tono “affettato” alla malinconia che pervade le sue divagazioni soul-step. Da “Limit to your Love” il lavoro si scrolla i fumi di una sbornia alcolica e della veglia mattutina, assume corpo: si desta. Basta ascoltare “Give me my month” e la ritmica di “Care“. Le voci si affollano: quella robotica e quella umana interagiscono assumendo una doppia funzione melodica e ritmica. In “Care” è la voce robotica a complicare il tempo, che per conto suo marcia in maniera ostinata. L’anomalia qui non è nei confronti del passato: ma dell’identità stessa del soggetto “James blake” stretto fra il crooner soul e le dissertazioni sulle basse frequenze: fra intimismo e solitudine in luoghi affollati: fra stanze vuote e letti disfatti e club altrettanto vuoti e altrettanto disfatti. In realtà, la seconda identità, quella dubstep, che creava un essere ancipite era solo belletto: basta guardare come si è evoluto questo strano ibrido. Il vocalista da piano bar è venuto fuori. E addio.

 

Ghostpoet, nato Obaro Ejimiwe, è inglese tanto da farsi ritrarre tra la nebbia, oppure da occhi troppo ebbri per mettere a fuoco. La sua natura ectoplasmatica e nostalgica (come si potrebbe altrimenti leggere il titolo del suo lavoro?) è figlia dell’identità “rave” inglese: scarso culto dell’identità, schizofrenia di “genere” e un flow da pub inglese.

 

 

L’etilismo ravvedere la sbornia da passato, ma la tendenza quasi da compendio geografico e storico di quello che è il suono british dell’ultima decade trova in GP una possibile via di fuga. Non la più esaltante, ma forse la più vicina al vero continuum underground albionico.

Senza dubbio, dei tre  – nonostante sia emotivamente più vicino a DB – ora è il suo, il prossimo lavoro che attendo con più ansia.