La quadratura del Cerchio: Paul McCartney & i Nirvana

13 Dec

di F/M

kristnovoselicdon'twantmeforasunbeam

Vedere realizzata l’impossibile  «reunion» del gruppo che ha reso di dominio pubblico il linguaggio coniato negli anni 80 in America da quelle band che hanno combattuto e preso botte per affermare la loro esistenza [si legga Our Band Could be Your Life di Azerrad, tradotto in italiano dalla Arcana con lo scandaloso titolo American Indie – Dieci Anni di Rock Underground] e vedere al posto del dioniso (o povero cristo) che fu Kurt Cobain quella vecchia mummia di Paul McCartney è stata una specie di epifania.

Kurt Cobain era l’esperimento perfetto della Sub-Pop, incarnava suo malgrado la malsana relazione tra il sub [Pavitt] e il pop(ulismo) [Poneman]. Il tentativo di contemperare entrambi gli impulsi nella sua persona ne decretò il sacrificio.

Fu allo stesso tempo un vittoria e una sconfitta. Gina Arnold all’indomani della scalata di Nevermind della classifica scrisse:«Abbiamo vinto». In realtà, la cultura underground americana fatta di gruppi che viaggiavano su vecchi pulmini, label la cui sede legale spesso era una camera che puzzava di piscio e merda, fanzine fotocopiate e incollate con lo sputo etc etc…[Certo è un’immagine “romantica” e forse anche leggermente idealizzata, ma era una «una battaglia di terra nel’era della guerra nucleare», come ha scritto Joe Carducci in Rock and the Pop Narcotic.] non aveva per nulla vinto. Anzi, aveva perso tutto, perché ormai la logica era quella della mercificazione e della next big thing a tutti i costi. La durata media dei gruppi era dettata dai tempi bulimici e dal gusto grossolano del grande pubblico.

E’ indubbio che impostare un discorso sulla dicotomia noi/loro non porterebbe a risultati soddisfacenti. Esiste qualcosa di più ampio che ingloba le soggettività, coinvolgendole in spostamenti continui tra i due domini. Molto spesso unidirezionali, ma con timide e sparute eccezioni.

Ma ritorniamo a quanto successo il 12/12/2012. Vedere Sir McCartney occupare il trono vuoto del Messia del Rock, l’uomo che trent’anni fa riuscì a condurre nuovamente la disadattata e impudica natura primitiva del rock al centro della scena, decretandone contemporaneamente la morte e la restaurazione infinita [nella figura dei Pearl Jam*] ha chiuso il cerchio.

I Beatles stanno al rock originario e alla vera psichedelia come i Nirvana stanno all’underground americano degli anni 80. Entrambi lo popolarizzano e lo distruggono. Vedere l’unico sopravvissuto dei FabFour (Ringo Starr non rientra nel novero) che occupa il vuoto dell’ultimo alfiere della sincerità è disarmante e chiude il sipario sul grande baraccone del rock.

Ite! Missa est!

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* Azerrad scrive:«Il 20 settembre del 1992, la nuova fabbrica di platino di Seattle chiamata Pearl Jam suonò un concerto gratis al Magnuson Park per trentamila fan del rock alternativo, tutti con i bermuda, il cappello da baseball al contrario e la fissa dello stage diving. Quello stesso giorno, dall’altra parte di Seattle, i Beat Happening suonarono al magazzino Fantagraphics, senza neppure un palco, davanti a 150 persone e una sfilza di banchetti di fumetti » (in Azerrad, M., American Indie. Dieci anni di Rock Undergrund, Arcana, Roma 2010, p.447). All’indomani della morte di Cobain, il buon Eddie Vedder diceva:« Ho sempre pensato che sarebbe toccato prima a me. Non lo so perché…sembrava così. Voglio dire, non è che lo vedessi tutti i giorni, anzi. Però in un certo senso, non mi sembra neanche giusto essere qui senza di lui» (si veda il saggio Where did you sleep last nigh? I Nirvana, Leadbelly e il fascino del primordiale, in Barke H.-Taylro Y., Musica di Plastica, ISBN, Milano 2007, p. 16). Peccato che Kurt Cobain mettesse tutti in guardia dai Pearl Jam.

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